La vita spirituale passa dal deserto. Nessuno è indenne da una traversata che segna per sempre il proprio cammino, diretto alla ricerca della terra promessa.
Si è soliti immaginarlo come a un lungo di espiazione, quasi di condanna, avendo impresso in mente i quarant’anni di girovagare del popolo condotto da Mosè verso Canaan. Tuttavia esso è luogo di scelta, di formazione e preparazione, spesso luogo di rifugio, altre volte terra di fuga. A volte condotti, altre costretti, di rado una scelta, spesso una necessità non considerata. Il deserto come meta richiede che si decida di partire o di allontanarsi volontariamente. Alcuni lo agognano come alternativa alla società vista come “un naufragio da cui ogni singolo individuo deve cercare di allontanarsi nuotando per tutta la vita” (Thomas Merton), ed in questa ottica nel tempo sono nati movimenti ascetici e monacali. Di fronte alla Croce elevata a segno di potere temporale e alla società percepita come un mare profondo occorre allontanarsi per mettersi in salvo. Venendo a noi, basta poco per scoprirci imprigionati con catene di costrizioni, a vivere una vita fatta di obblighi e doveri: devi fare questo, devi fare quell’altro, non puoi stare qui o là, e così via. Sono questi obblighi che producono un nostro falso essere, riflesso dell’ambiente in cui viviamo e del modus vivendi di ciascuno. Il risultato è che ognuno è colui che piace, che è ammirato, rispettato, odiato, nel solo tentativo di soddisfare il bisogno di continua e crescente affermazione rincorrendo un utopico imprimatur generale. Ci ritroviamo così presto schiavi, occupati e preoccupati, sotto il peso di differenti pressioni: familiari, lavorative, ecclesiastiche.
Ciò che è largamente condivisa è l’impossibilità ad uscirne semplicemente con un atto di volontà personale, anzi si arriva al punto di identificarsi con questo sistema di cose che non tollera tempi vuoti e spazi liberi. Ecco perché in determinati momenti la mano di Dio ci spinge e lo Spirito ci trasporta nel deserto, allontanandoci dall’ambiente “ordinario” per ritrovare lo “straordinario” che è dentro - e attorno - noi. Prima di iniziare il suo ministero il Signore “fu condotto dallo Spirito nel deserto” (Luca 4) per affrontare il diavolo. Altrove leggiamo che i demoni cercano riposo in luoghi aridi (Luca 11:24). Ci bastano questi riferimenti per comprendere che si tratta anche di una temibile landa selvaggia, un luogo di combattimento. Quando decidiamo di cercare e rincorrere il bene, saremo presto chiamati a combattere il male e le sue forme, partendo da quella “trave” che è nel nostro occhio. È nell’aridità che dovremmo palesemente manifestare se siamo con Dio o con Mammona. Nel deserto Mosè ebbe la rivelazione di JHWH, in una valle arida il profeta Ezechiele vide ricomporsi per lo Spirito un esercito di cadaveri, dopo la tentazione Gesù venne servito dagli angeli. Come il profeta, al pari di Israele nell’Esodo, siamo sfidati ad essere discepoli alla scuola di fede; passandovi e ricevendo miracolosamente il necessario quotidiano, siamo chiamati a imparare a vivere nella totale dipendenza dall’Eterno che vive (1Re 17). Elia, circondato dall’aridità per la perdurante siccità, può abbeverarsi al torrente, e affamato ricevere da mangiare dai corvi. La lotta, nel favorire la nostra ricerca di Dio, ha come fine la purezza del cuore, una visione chiara e divina della realtà, la comprensione che in Cristo siamo fatti nuove creature. Un cuore puro non è legato a niente se non a Dio. Chi ha un cuore puro pensa e vede solo il Signore. Perciò è indispensabile affrontare il combattimento spirituale, attraversare un deserto, per riuscire a vederLo.
Se pensiamo ad esso come al luogo che la lingua ebraica definisce midbar, ossia “senza parole”, allora ne siamo ben lontani! Perché se un suo aspetto è quello di luogo del silenzio, dove per trovare Dio occorre porsi all’ascolto, a tacere, tutto ciò che ci circonda ci dice l’esatto contrario. Nel reale siamo avvolti dal trambusto e rumori di ogni genere, e quando ce la caviamo siamo coperti dalla musica o dall’audio di un monitor. Nel virtuale siamo comparse consapevoli, raramente protagonisti, dei social che nonostante la solitudine non ti lasciano percepire il silenzio. Il caos è tale che come all’esterno facciamo oltremodo fatica a percepire un silenzio interiore. Per questo il deserto è anche sinonimo di ritrovare sé stessi. Venga su noi lo Spirito a sospingerci nel deserto come fu per Saulo da Tarso, che vi rimase tre anni prima di iniziare un cammino che ha segnato il cristianesimo. Se anche non condotti dallo Spirito, ricerchiamo comunque un deserto per riavvolgere il nastro, dipanare la matassa ingarbugliata dei pensieri e ritornare a pensare autonomamente. Sarà per certi versi una dura battaglia, ma attraverso un minimo di disciplina potremmo tenere aperto uno spazio interiore per Dio, l’unico in grado di ricrearci e trasformarci in persone nuove, perché dove giunge la Sua amorevole azione il deserto fiorisce sempre.
Foto di Heder Zambrano, www.freeimages.com
Comments