Se uno cade non si rialza forse? Se uno si svia, non torna egli indietro?
Ognuno riprende la sua corsa, come il cavallo che si slancia alla battaglia.
Geremia 8:4, 7
Geremia è profeta a me caro, e dai miei primi passi nel sentiero cristiano ho attinto dalle parole del suo libro. Affinità con la sua chiamata e il pathos del suo ministero lo hanno reso fonte di ispirazione. Infatti il testo che accompagna la mia opera è proprio tratto dai primi versi dello scritto che porta il suo nome. Il testo odierno è parte di una sezione poetica con alcune delle più acute immagini del profeta. Attraverso la poesia viene descritto il rifiuto di un popolo e di una città ad essere fedele al proprio Dio, e per questo in cammino verso la morte.
Le domande del verso 4, “Se uno cade non si rialza forse? Se uno si svia, non torna egli indietro?” non racchiudono la nostra speranza o i nostri dubbi, ma sono la triste constatazione di Dio all’atteggiamento folle di questo popolo. A dispetto degli animali che sanno riconoscere le stagioni per migrare e il tempo per tornare (v. 7), la gente del tempo di Geremia non compie alcuno sforzo per correggere la propria condotta. Anzi, vivono come i cavalli lanciati alla battaglia. Nessun cavallo lo farebbe, se non avesse i paraocchi e se non fosse cavalcato da qualcuno. Lutero paragonava l’essere umano a un cavallo, sempre cavalcato da qualcuno, o dal diavolo o da Dio. Secondo lui, l’uomo non è in grado di vivere come se fosse al supermercato, di scegliere, guardare e giudicare liberamente. Ma appunto è sempre cavalcato da qualcuno. Allora chiediamoci: “Chi ci sta cavalcando?” Un’ideologia, un desiderio, un’ambizione o soltanto la preoccupazione e la paura del nostro tempo? Dove ci condurrà questa corsa? In questi giorni molti sono dominati dalla paura che siamo lanciati su una strada senza meta, il cui fine resta una immensa nebulosa. Su questo campo di battaglia allora abbondano la paura di vivere e la diffidenza verso l’autore della vita. Questo determina l’autodistruzione di un popolo, incapace di cambiare.
Infatti, nonostante questa prospettiva, la grande colpa dell’uomo è che si può convertire (rialzarsi, tornare indietro) in ogni momento, ma non lo fa. Sarebbe semplice come gli uccelli seguono i loro istinti, ma non lo fa. Nelle parole del giovane profeta è intriso tutto il pathos di Dio, le cui parole sono quelle di Geremia. Il no di Geremia è un no che costa, al punto di rischiare anche la vita. Perché cade? Perché si svia? Sono le domande sofferenti di un cuore profondamente ferito. Potrebbe apparire eccessivo, ma Dio soffre. E soffre perché ama. Dio ama e perciò soffre, perché non li può fermare a motivo della libertà che gli ha dato. Purtroppo il patto della Legge, espressione di un legame interiore, è diventato formale: lettera morta, riti religiosi. Ecco quel che molti sono diventati: cavalli con i paraocchi, con le orecchie tappate, senza più sensibilità e che vivono nell’illusione delirante di essere più bravi degli altri, la cui battaglia è la santa guerra. In questo modo perdiamo di vista le cose che contano, forse lasciamo i sentieri antichi, e passiamo dall’altra parte se incrociamo qualcuno che ha bisogno di noi. “Ognuno riprende la sua corsa, come il cavallo che si slancia alla battaglia”, è la terribile verità che si sta andando contro la coscienza, contro Dio. Forse siamo diventati apatici nella frenetica ricerca di sensazioni, e non ce ne siamo accorti. Se è questa la nostra condizione non possiamo restare indifferenti. Geremia non voleva parlare, ma non ha potuto restare in silenzio: un fuoco ardeva nelle sue ossa. La sua sofferenza era la sofferenza del Dio in cui credeva e che serviva.
Guardo a lui, e per questo voglio liberarmi di ogni oppressione e di tutto quello che non mi consente di vedere chiaramente. Voglio come il profeta sentire la sofferenza di Dio. Come fare? Volgere gli occhi a me stesso e tornare a domandarmi in preghiera al termine della giornata: “Cosa ho fatto?”. Basta guardare all’altro. Io e non costui o costei. Un vecchio canto dice “Sono io, sono io, Signor che ho bisogno di pregare”. Voglio trovare il coraggio di rialzarmi, se sono caduto, e di ritrovare la via di Dio se da essa mi sono allontanato.
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Devotional 19/2020
Piano di lettura settimanale della Bibbia
04 maggio 1Re 19-20; Luca 23:1-25
05 maggio 1Re 21-22; Luca 23:26-56
06 maggio 2Re 1-3; Luca 24:1-35
07 maggio 2Re 4-6; Luca 24:36-53
08 maggio 2Re 7-9; Giovanni 1:1-28
09 maggio 2Re 10-12; Giovanni 1:29-51
10 maggio 2Re 13-14; Giovanni 2
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La festa della mamma
La seconda domenica di maggio vede festeggiamenti dedicati alla mamma in molte parti del mondo. Tale tradizione risale al XVII sec. in Inghilterra con il Mothering Sunday: i bambini, lontani dalle famiglie per imparare un mestiere o perché costretti a servitù, ritornavano a casa per un giorno. Nel maggio 1870, negli Stati Uniti Julia Ward Howe, promotrice dell’abolizione della schiavitù, propose l’istituzione del Mother’s Day per riflettere sull’inutilità della guerra. Anna M. Jarvis, alla morte della madre, inviò lettere a diversi membri del Congresso, affinché venisse istituita una festa per celebrare le mamme ancora in vita. Nel maggio 1908, a Grafton nel Massachusetts, venne celebrata la prima festa della mamma e nel 1914 il presidente Wilson istituì il Mother’s Day e si decise di celebrarlo la seconda domenica di maggio. In Italia la festa arriva negli anni Cinquanta, assumendo presto connotati religiosi con la dedicazione del mese di maggio alla Madonna.
foto di frisee max, www.freeimages.com
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