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Immagine del redattoreElpidio Pezzella

Genitori di troppo

Sempre più violenza tra le mura domestiche. La culla della famiglia, il centro delle relazioni e degli affetti più forti è drammaticamente sempre più spesso intrisa di sangue per odio, ribellione o soldi. Se non ci stanchiamo di allineare scarpe rosse per difendere le donne oggetto di violenza gratuita, dobbiamo cominciare a pensare a peluche per i figli portati via, ma anche a pantofole per i genitori sempre più vittime di disegni criminali da chi loro stessi hanno generato. Adolescenti o poco più che, senza esitare ma con imponderabile lucidità, uccidono con glaciale spietatezza, con incomprensibile ferocia coloro che li hanno messi al mondo.

Dal “tu quoque, Brute, fili mi?” («anche tu, Bruto, figlio mio?») rivolto da Cesare prima di morire al figlio Marco Bruto l’elenco è in continuo aggiornamento e riguarda finanche giovanissimi, che non esitano a concepire un matricidio o parricidio, addirittura una strage familiare. C’è chi ha ucciso per questioni di eredità, chi per un amore ostacolato, eppure, al di là delle ragioni puramente “materiali” del gesto, rimane da capire qualcosa di più profondo, e forse difficilmente raggiungibile: come sia possibile che un figlio possa decidere di togliere la vita a un genitore, come possa un ragazzo architettare piani “diabolici” (nel senso anche spirituale del termine) da poter essere partoriti dalle menti criminali più feroci, come possa un figlio nutrirsi di un odio talmente vasto da pensare alla morte della propria madre o del proprio padre.


Lo psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza Mauro Manca ha dichiarato: “Bisogna riflettere sul senso delle regole e dell’educazione e di quanto un ambiente familiare possa condizionare lo sviluppo psichico di un ragazzo. L’adolescenza di per sé è un’età di messa in discussione di se stessi e delle figure genitoriali, per molti adolescenti, invece, è basata sul non volere regole, pretendere la libertà, fare quello che si vuole quando si vuole senza vincoli imposti dalla scuola e dalla famiglia, con i genitori però che devono risolvere i problemi, fornire i soldi, fare da mangiare, lavare, pulire e non rompere. Ci sono tantissime famiglie in cui si respira un clima pesante e pressante da un punto di vista psichico e fisico. Ci sono nuclei ad elevatissima conflittualità dove i figli manipolano, sono violenti, aggressivi e si vive come se potesse scoppiare una bomba da un momento all’altro. I ragazzi sono presi dagli impulsi, se non hanno sviluppato un senso morale adeguato, se non hanno limiti, se i confini psichici sono labili, è possibile che l’emotività interna prenda il sopravvento e spinga anche a commettere un atroce gesto. In quel momento si vede l’eliminazione del problema, si è invasi dalla rabbia, dal conflitto interno che scatta tra “sono i miei genitori” e “sono le persone che mi fanno star male e mi stanno rovinando la vita”. Ho visto decine di adolescenti dire “li ucciderei”, “non li sopporto più”, “lo odio”, “mi hanno rovinato la vita”, identificare genitori come la fonte di tutti i loro problemi e vederli come un oggetto da attaccare e distruggere. Il conflitto interno su ciò che si vorrebbe fare e ciò che non si vorrebbe fare è motivo di forte sofferenza perché attiva un circuito basato sull’illusione e disillusione perché comunque ci sono i momenti in cui si spera che i genitori possano essere diversi, che ci sia un avvicinamento e invece, si realizza che non corrispondono alla loro idea di genitore. A quell’età se ci sono stati dei blocchi e delle deviazioni nello sviluppo psichico, si guarda il presente, non ci si rende conto delle conseguenze, si è in preda della disregolazione delle proprie emozioni e si agisce anche senza pensare al dopo”.


La cronaca recente ci dice come le figure preposte all’educazione e alla cura vengono percepite in alcune circostanze, tipo una relazione sentimentale tra giovanissimi, come un ostacolo da rimuovere; infatti, il movente comune sarebbe da ricondurre sempre a dei contrasti tra il figlio e i genitori. Ed è così che la cronaca si tinge inaspettatamente di figli che uccidono i genitori o armano la mano di fidanzati o amici per compiere crimini efferati. In tanti si chiedono: “Cosa sta succedendo?”. Qualche genitore volge la lampada su di sé e tra mille dubbi bisbiglia: “Abbiamo creato dei mostri!?” Lo psicoanalista Massimo Ammaniti sostiene che “la resistenza agli adulti si trasforma in un cemento sentimentale, coalizzarsi nella rabbia e nella complicità diventa, paradossalmente, una forma di passione, un sentimento che, nelle sue forme estreme può diventare omicida verso chiunque si opponga alla sua realizzazione”.


Quando i figli crescono senza amore, poiché esso è identificato e veicolato solo da beni materiali, potranno vedere il genitore solo sotto una visione consumistica, senza rispetto e senza onore. Solo un distributore economico, come fu inizialmente per il figliol prodigo (Luca 15:12). In pratica la madre e il padre vengono visti soltanto come un mezzo per accedere all’oggetto del loro piacere. Nel momento in cui il mezzo si oppone al raggiungimento dell’oggetto del desiderio deve essere eliminato o comunque punito. Ecco l’effetto di una società senza regole, quelle stabilite in genere dal principio paterno, comandato nel decalogo (Esodo 20) per chi ha fede. Questo il triste risultato di una società senza padri (di cui sono responsabili uomini e donne insieme). Stiamo pagando un conto salato alla società dell’apparire, nella quale il figlio è visto a sua volta come uno strumento di successo per riflettersi poi sul genitore gratificato: ricordiamo qualche anno fa il “fenomeno veline”. In pratica si usano i figli i quali, a loro volta, imparano ad usare i genitori e tutto ciò senza alcuna regola da rispettare, senza nessun genitore da onorare. È così che si creano i figli con senso di onnipotenza i quali credono che tutto deve essere loro concesso perché nulla hanno avuto. In un certo senso hanno ragione, i figli non amati non ricevono nulla, nonostante i tanti beni materiali, e quindi pretendono tutto che poi equivale a niente poiché tutto e niente si toccano nella loro vuotezza.


Si va determinando quello che gli psicologi chiamano “sé grandioso”: un falso sé, da cui una personalità distorta e disturbata può arrivare a uccidere il proprio genitore. Il narcisista non prova sentimenti, dicono gli psicoterapeuti. Il figlio con senso di onnipotenza è un narcisista che vuole consumare avidamente senza nulla dare e senza provare emozioni. Non è capace di donare né di donarsi, non riesce ad amare e ad essere amato. È una tragedia collettiva che riguarda tutti noi, nessuno escluso. Usciamo dalla nuvola della convinzione che accada sempre agli altri, per poi stupirci e scandalizzarci ogni volta. Guardiamoci dentro e assumiamoci la responsabilità di figli o di genitori, ognuno con un ruolo che deve essere definito, rispettato e onorato, con regole precise. La fede può essere aiuto e guida. Infatti, Paolo sostiene che chi rifiuta di conoscere Dio si predispone “ad una mente perversa, da far cose sconvenienti” (Romani 1:28). Ci siamo alimentati alle fonti dell’onnipotenza e del licenzioso “si può fare tutto”, riflessi invece di una reale impotenza. La società del “faccio quello che mi pare” è fallita sotto i drammi della droga e dei più recenti omicidi genitoriali, anche se non lo si vuole ammettere. La libertà non è fare quello che si vuole, ma sapere cosa si vuole e adattarlo alla realtà che ci circonda, diventando capaci di tollerare i no e le rinunce, smettendo di avere paura di amare e di essere amati. Siamo pronti quindi a sentenziare che quei genitori morti e quei figli disperati non l’hanno fatto. Invece chiediamoci se sapremo farlo noi.


Mentre provo a dare una risposta, mi giunge un’altra domanda: “E se il segreto fosse tutto nel valore dell’attesa?” L’attesa è la felicità in divenire, non un pacco chiuso, ma un set tipo Lego: quella brama di costruire che necessita di pazienza. Ricordiamo che la civiltà nasce quel giorno in cui il cacciatore primitivo, invece di consumare subito la preda appena cacciata, decide di portarla a casa, perché venga cucinata e condivisa. Gli uomini capiscono che attendere di cucinare la preda e di condividerla accresce il piacere. In fondo lo abbiamo già considerato, “il tutto e subito” è la malattia grave dei nostri giovani, un male piantato in loro da chi poi diviene loro vittima inconsapevole. Quanti preposti alla genitorialità fanno fatica a resistere, mostrando all’apparenza un cuore più duro, ma nel tempo volto ad insegnare che un tempo giusto di attesa non solo lo renderà più forte, ma gli consentirà anche una soddisfazione più grande. Purtroppo resta grande l’incapacità di vederli piangere… lo stesso accade con i neonati, ed è errore che si protrae nel tempo e nelle fasi di crescita.


Ho avuto sempre grande stima del teatro di Eduardo, e una delle sue più grandi lezioni era proprio “il tempo è galantuomo”. Nell’attesa le emozioni ingenue o euforiche si trasformano in sentimenti duraturi, che ci maturano. Impariamo ad assimilare anche le sofferenze più insopportabili, a scoprire il significato insondabile del dolore. Attendere non sarà allora tempo sprecato: impareremo a scandire gesti e parole, alleneremo il nostro ascolto ad una maggiore sensibilità. Ho scoperto un proverbio brasiliano, che saggiamente sintetizza tutto: “il tempo distrugge ciò che senza il tempo è stato edificato”. Dio ci aiuti a costruire, e a insegnare a costruire, la felicità.


 

Foto da www.freeimages.com

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