«Non userai il nome dell’Eterno, il tuo Dio, invano, perché l’Eterno non lascerà impunito chi usa il suo nome invano» (Esodo 20:7). La terza parola non vieta di usare il nome di Dio, ma di non usarlo invano ossia in modo vano, inutilmente. Cosa intende? Il tema è stato esposto nel mio “Le dieci parole per tutti”.
Il nome di Dio
Il primo comandamento è un’enunciazione, una sorta di biglietto da visita dell’Iddio che Mosè ha conosciuto dinanzi al roveto sul monte Sinai o Oreb: «Io sono l’Eterno, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altri dèi davanti a me» (Esodo 20:2-3). Mosè si ritrovò dinanzi al pruno ardente ove udì la voce di Colui che lo invitava a raccogliere il Suo comando. Tra lo sconcerto e lo stupore, il fuggitivo omicida pose a Dio un quesito: «Ecco, quando andrò dai figli d’Israele e dirò loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi”, se essi mi dicono: “Qual è il suo nome?”, che risponderò loro?» (Esodo 3:13). Dio rispose a Mosè, offrendogli una presentazione inusuale: «Io Sono Colui che Sono». Poi disse: «Dirai così ai figli d’Israele: “L’Io Sono mi ha mandato da voi”» (Esodo 3:14).
L’allocuzione “Io sono colui che sono” nel testo è riferito al tetragramma divino (YHWH), termine questo che non veniva mai pronunciato dagli Ebrei, nemmeno durante la lettura del testo biblico. Il tetragramma, composto da quattro lettere, YHWH (nella translitterazione), risulta impronunciabile non solo perché composto da sole consonanti, ma anche per una sorta di riverenza verso Dio. In ebraico il termine “Dio” non esiste, ma vi sono solo dei nomi, attributi del divino. Il lettore ogniqualvolta si trova di fronte al tetragramma non ne salta la lettura, bensì lo sostituisce con il termine “Adonaj” se si tratta del testo biblico, con “HaShem” per gli altri testi. Noi occidentali utilizziamo solitamente nelle traduzioni il termine “Eterno” oppure “Signore”.
Il tetragramma, attraverso il quale Dio si rivela, non corrisponde a un nome sostantivo, bensì a un nome verbo: “hwh, hjh”. Più che una rivelazione del nome misterioso di Dio, il testo afferma solo l’essere irraggiungibile e inconoscibile di Dio, un presente in movimento, la cui azione è però visibile e operante nella storia. Io sono YHWH, quindi non un vuoto appellativo incomprensibile, ma una presenza efficace e suprema che interviene al fianco del popolo con la Sua mano liberatrice. Da questa prospettiva la cognizione di Dio entra in una proiezione del tempo. Se ne ricava che non si ha un appellativo o un modo per identificare una figura, ma un modo per tener presente che Dio è Colui che è sempre vicino a noi. Ecco l’Io sono come Colui che è “essere” al presente e che lo sarà anche al futuro. Egli non è passato, poiché quando arriviamo al Suo cospetto tutto ciò che è passato non interessa più alla nostra vita. Ciò che a noi può e deve interessare è che Egli sia presente oggi e che intervenga nel nostro futuro.
Come e quando si può usare il nome di Dio?
Il Suo è un nome “non nome” che, nel testo ebraico, è espresso con una forma verbale che lega assieme presente e futuro. Alcuni ritengono che la traduzione corretta sia “Io sono quello che sarò con te”. Una presenza di Dio, quindi, attestata al presente, ma che continua ancora nel futuro. Questo nome, che Dio stesso rivelò a Mosè, è fatto comando di non usarlo invano. Così come l’opera delle mani dell’uomo, delle sculture, in generale non possono rappresentare il Creatore, poiché l’uomo con la sua immaginazione non sarà mai in grado di rappresentare Colui che è la fonte della creazione stessa, allo stesso modo il comando, estremizzato dagli ebrei nella non menzione, parte da questo presupposto della cultura ebraica, ossia che Dio è altro e che è diverso dall’uomo. Egli è tanto diverso che l’uomo ha difficoltà nel chiamarLo o menzionarLo.
Vi è da dire, però, che con la rivelazione neotestamentaria attraverso l’opera compiuta da Gesù con la sua venuta ci è stato rivelato un appellativo di Dio che ne esprime l’identità: Lo abbiamo conosciuto come Padre. Con Gesù, infatti, Colui che è con noi al presente e nel futuro è diventato Padre, Padre nostro. Cristo, inoltre, ci ha anche detto che chi Lo ha riconosciuto e ricevuto ha acquisito il diritto di essere figlio di Dio. In proiezione teologica cristiana, l’opera di Cristo ci ha dato la possibilità di conoscere un nome particolare di Dio. L’apostolo Paolo, infatti, scrisse che noi tutti abbiamo avuto il dono di chiamarlo Abbà. Non YHWH, né Eterno ma, in virtù della nostra relazione e in qualità di figli, lo chiamiamo Padre. Ma questo non ci autorizza ad abusare, a fare uso del suo nome a nostro piacimento.
Quando il Suo nome è nominato invano?
In ebraico “invano” è shaw’, un termine del lessico idolatrico che indica la “vanità”, il “vuoto” dell’idolo. Qualche studioso propone, a priori, di scindere il nome di Dio da tutti gli eventi e le forme che riguardano la violenza. La storia, invece, ci insegna e ricorda che, in maniera triste e tragica, il nome di Dio è stato abbinato a faccende di sangue, guerra e violenza e persecuzione. Questo è un modo di nominare Dio non solo vano ma addirittura sacrilego e blasfemo. Nel Suo nome, difatti, sono state compiute cose inaudite e l’uomo stesso, purtroppo, si è macchiato di crimini verso l’umanità celandoli sotto il nome e l’effige di Dio. Di certo non era quella delle Dieci Parole, né lo sarà mai.
Tutte le volte che menzioniamo il Suo nome dovrebbe dispiegarsi un viale, un ponte e una strada d’amore, perché Dio si è rivelato a noi come Padre e ci ha manifestato tale amore. Ogniqualvolta Egli è chiamato in causa dovrebbe avvenire esclusivamente per una causa d’amore e di bene, tanto nelle nostre relazioni con gli altri che nella nostra relazione personale con Lui. Anche in questo caso, dovrebbe essere solo per lodare, benedire ed esaltare il Suo santo nome. Invano anche come profanare, e quindi riferito a un uso irriverente (bestemmia), ipocrita e leggero. Non a caso nella preghiera modello del Padre Nostro, Gesù insegna: «Sia santificato il tuo nome» (Matteo 6:9). Da notare infine che nelle Dieci Parole il tetragramma divino è presente nelle prime cinque, mentre è completamente assente nelle successive. Il rabbino Ouaknin per afferrare la legge ci invita a comprendere il senso di questa presenza/assenza del Nome. Egli insegna che “il nome già di per sé impronunciabile, quindi una parola di silenzio, nell’assenza rimanda a un silenzio maggiore. Non nominare il nome invano potrebbe allora essere la capacità di fare silenzio, per aprire quella porta per entrare nel più profondo di me stesso”.
Foto di Bill Davenport e Kathryn Radmall, www.freeimages.com
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