Il Signore è la mia rocca, la mia fortezza, il mio liberatore; il mio Dio, la mia rupe, in cui mi rifugio, il mio scudo, il mio potente salvatore, il mio alto rifugio.
Salmi 18:2
Il dolore innocente è sempre stato per la gran parte motivo di scandalo e perdita della fede, facendo gridare a qualcuno: «Dov’ è (era) Dio?». Ad Auschwitz, in quel luogo infernale, tanti hanno vissuto la più grande esperienza di Dio presente. Tra costoro Etty Hillesum, il cui diario consente di scoprire quel seme di amore e fraternità impiantato nel grembo insanguinato della storia. Etty nasce in Olanda da una famiglia ebraica, religiosamente non praticante. Giovane brillante, è conquistata dalla letteratura e dalla filosofia. Laureatasi in giurisprudenza, intraprende lo studio della psicologia. Il 9 marzo 1941, a 27 anni comincia a scrivere un diario destinato a diventare uno dei più notevoli documenti dell’Olocausto. Esther, questo il suo vero nome, lavora come dattilografa al Consiglio Ebraico e allo scoppiare della Seconda guerra mondiale e delle persecuzioni razziali anziché scappare decide di non abbandonare la sua famiglia e il suo popolo. Etty imbocca un percorso che la porta ad assumere consapevolmente il ruolo di testimone e cronista della terribile realtà a lei contemporanea e a diventare un punto di riferimento per le persone di cui condivide le sofferenze nel campo di transito di Westerbork, dove il 7 settembre 1943 sale su un treno per Auschwitz da cui non farà più ritorno. «Apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto rifugio”. La partenza è arrivata inaspettata, nonostante tutto. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Misha. Viaggeremo per tre giorni. Arrivederci da noi quattro».
Undici quaderni e alcune lettere, raccolte soltanto nel 1981 per la prima volta, offrono riflessioni che sono perle per chiunque ricerchi Dio. Inizialmente dispersa e inquieta, Etty ritrova la fede proprio in mezzo alla grande tragedia della Shoah. Trasfigurata dalla fede, diviene una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: «Vivo costantemente in intimità con Dio». Grazie alla fede scoperta nel dolore riesce ad aiutare gli altri a morire con dignità. L’incontro con Dio le dona la forza di affrontare la morte con serenità, perché come scrive: «Senza Dio il mondo è assurdo». Nel dolore riesce a disseppellire Dio dalla sua parte più intima, e a ritrovarlo vivo, quale fonte dell’eterno Amore. «L’unico atto degno di un uomo è inginocchiarsi davanti a Dio». Per dirla con le sue stesse parole, il gelsomino, simbolo della bellezza della vita, poté incredibilmente continuare a fiorire indisturbato nella sua anima. Solo Dio vivente nella propria esistenza può condurti ad esprimere parole come queste: «Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano andrò dappertutto allora, e cercherò di non avere paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. […] Una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata».
La sua vita ci dice che siamo chiamati a scegliere la strada più difficile, ma che conduce alla vita: “Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano” (Matteo 7:14). Abbiamo il diritto e il dovere di non morire nell’indifferenza e che inevitabilmente si ripercuote nel mondo che costruiamo. Provare ad essere “cuori pensanti”, come scriveva lei. Nonostante le tempeste che cercano di annegarci nelle pozzanghere delle paure e delle incertezze, inginocchiamoci davanti a Dio e leviamoci come i gigli del campo che menzionò Gesù: “Se dunque non potete fare nemmeno ciò che è minimo, perché vi affannate per il resto? Guardate i gigli, come crescono; non faticano e non filano; eppure io vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu mai vestito come uno di loro” (Luca 12:26-27). Il suo diario si chiude con queste parole: «Si vorrebbe esser un balsamo per molte ferite». Ed io spero che anche questo devotional sia una goccia di balsamo per molte ferite, anche se l’unico olio in grado di sanarci resta quello del buon samaritano (Luca 10:33-34).
Piano di lettura settimanale
della Bibbia n. 44
28 ottobre Geremia 18-19; 2 Timoteo 3
29 ottobre Geremia 20-21; 2 Timoteo 4
30 ottobre Geremia 22-23; Tito 1
31 ottobre Geremia 24-26; Tito 2
01 novembre Geremia 27-29; Tito 3
02 novembre Geremia 30-31; Filemone
03 novembre Geremia 32-33; Ebrei 1
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